GUIDA PRATICA PER IL PAZIENTE CON ANEMIA EMOLITICA AUTOIMMUNE
A cura della U.O. Ematologia, U.O.S. Fisiopatologia delle Anemie
Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
L’anemia emolitica autoimmune (AEA) è una malattia del sangue, acquisita (non è una malattia congenita, né ereditaria). Non è un tumore. Non è contagiosa
L’AEA è dovuta ad una produzione errata di autoanticorpi da parte del sistema immunitario (che normalmente li produce nei confronti di virus e batteri potenzialmente portatori di malattia). Per un errore la cui causa non è completamente conosciuta, la risposta anticorpale si rivolge verso se stessi, determinando quella che viene chiamata l’autoimmunità. Vi sono numerose malattie autoimmuni, con caratteristiche diverse a seconda del “bersaglio” erroneamente colpito (cellule del sangue, costituenti dei vari organi, DNA, etc.). Nella anemia emolitica autoimmune il bersaglio è il globulo rosso, che viene quindi distrutto provocando anemia e liberazione del contenuto dei globuli rossi nel sangue (emolisi).
L’AEA è una malattia relativamente rara con una incidenza di 1-3 casi per 100.000 persone/anno, che può presentarsi isolata (le cosiddette forme primitive o idiopatiche) oppure in associazione ad altre malattie (forme cosiddette secondarie). Fra queste ultime si ricordano alcune malattie infettive (infezioni virali o da Mycoplasma pneumoniae, spesso iperacute ma a buona prognosi), altre malattie autoimmuni e tumori (linfomi, leucemia linfatica cronica).
LA DIAGNOSI
Un semplice prelievo di sangue permette di valutare i valori dell’emocromo e in particolare dell’emoglobina che definisce la gravità dell’anemia. Non meno rilevanti sono gli indici emolitici che rispecchiano l’entità dell’emolisi. Fra questi è importante il numero di reticolociti, che sono globuli rossi giovani, incompleti nella loro maturazione poiché prodotti e dismessi dal midollo osseo in condizioni di “urgente necessità”. Si osserva inoltre un aumento della lattato deidrogenasi (LDH) e bilirubina e una diminuzione dell’aptoglobina. Il cardine diagnostico è rappresentato dal test di Coombs, che permette di rilevare la presenza di anticorpi diretti contro i globuli rossi. E’ importante anche stabilire il tipo di positività (se da autoanticorpi di classe IgG o IgM/complemento) e la temperatura di reazione degli anticorpi (se “a caldo” o “a freddo”) poiché queste caratteristiche condizionano un quadro clinico e un trattamento diverso.
E’ importante anche eseguire una ecografia addominale per verificare la presenza di calcoli della colecisti (frequenti in tutte le anemie emolitiche) o di un aumento delle dimensioni della milza.
I SINTOMI E IL DECORSO
L’anemia è definita dalla riduzione dei livelli di emoglobina rilevata all’esame emocromocitometrico. L’anemia può essere grave, moderata o lieve in relazione ai livelli di emoglobina, mentre i sintomi relativi (pallore, stanchezza, affanno e palpitazione) sono più legati alla velocità di insorgenza dell’anemia, essendo più marcati nelle forme acute e meno evidenti nelle forme croniche.
Il quadro clinico, l’intensità dei sintomi e il decorso della malattia sono molto variabili, da insidioso a fulminante. Nei primi casi i sintomi (stanchezza, pallore, mancanza di respiro, colore itterico/ giallognolo della pelle, etc) si instaurano lentamente e possono passare inosservati per lungo tempo. Viceversa nelle forme iperacute e gravi, che spesso portano ad un ricovero in ospedale, predomina la stanchezza estrema e vi possono essere, brividi, febbre, crampi, dolori lombari e addominali e colore ambrato delle urine (dovuto alla emissione di emoglobina o emoglobinuria). In occasione di crisi emoglobinuriche molto severe si può determinare un danno renale acuto che deve essere opportunamente e tempestivamente curato. Le AEA da autoanticorpi “freddi” sono caratterizzate da emolisi nelle sedi corporee dove la temperatura raggiunge quella di reazione dell’anticorpo e quindi da colorazione bluastra alle mani, piedi, orecchie, naso, etc., scatenati per lo più dall’esposizione al freddo.
Infine vi possono essere sintomi dovuti alla presenza di calcoli alla colecisti (coliche addominali, difficoltà digestiva, etc) o ad un aumento di dimensioni della milza (ingombro addominale).
Nella maggior parte dei casi si osservano quadri clinici di gravità intermedia fra quelli descritti, normalmente curati con visite ambulatoriali e compatibili con una vita attiva con scarsa interferenza nelle relazioni familiari, sociali, lavorative. Nei casi più gravi, il periodo successivo alla dimissione dall’ospedale può richiedere frequenti controlli medici e terapie che possono peggiorare la qualità della vita. In un terzo circa dei pazienti la malattia può ripresentarsi a distanza anche di anni dal primo episodio. Si parla quindi di recidiva, che può tuttavia rispondere ancora bene alle terapie. Infine, in una piccola percentuale di casi (meno del 10%) si verificano numerose e frequenti recidive che richiedono varie linee di terapia anche molto impegnative e che rappresentano quindi un problema clinico molto grave (forme refrattarie).
LA TERAPIA
Nelle forme idiopatiche da anticorpi “caldi” la terapia di prima scelta è il cortisone, che in circa 3-4 settimane è sufficiente a controllare l’emolisi nel 70-85% dei casi. La terapia va successivamente scalata con un attento monitoraggio in quanto una rapida riduzione determina assai frequentemente recidive emolitiche. Vanno inoltre monitorati e trattati i possibili effetti collaterali della terapia steroidea (ipertensione, diabete, ulcera, cataratta, osteoporosi, irritabilità, insonnia, aumento di peso).
Nelle AEA recidivate o refrattarie alla terapia con cortisone va considerata una terapia di cosiddetta seconda linea. Attualmente la terapia di seconda linea maggiormente utilizzata nelle AEA da anticorpi caldi è il rituximab, un anticorpo monoclonale rivolto contro la molecola CD20 posta sulla membrana del linfocita B. Questa terapia risulta efficace in circa l’80% dei casi e può essere ripetuta diverse volte mantenendo la sua efficacia. In caso di ulteriore revidiva è necessario intervenire con altre opzioni terapeutiche. Tali terapie sono rappresentate da farmaci immunosoppressori e dall’intervento di asportazione della milza (splenectomia). I farmaci immunosoppressori (tra i quali azatioprina, ciclofosfamide, ciclosporina) si associano generalmente al cortisone e richiedono un attento monitoraggio da parte dello specialista ematologo per i possibili effetti collaterali. La loro efficacia si osserva in circa il 60% dei casi. La splenectomia è l’opzione terapeutica con la maggiore e più prolungata efficacia, tant’è che viene associata ad una “guarigione” in oltre il 50% dei casi. Tuttavia essa è un intervento a maggior rischio negli anziani gravato inoltre da un aumentato rischio infettivo e trombotico. Deve essere quindi preceduta dalle vaccinazioni anti-pneumococcica, anti-meningococcica e anti-Haemophilus.
Nelle AEA da anticorpi “freddi” è fondamentale la protezione dal freddo, che nelle forme asintomatiche è sufficiente per garantire livelli di emoglobina compatibili con una vita normale. Viceversa il cortisone è meno efficace che nelle forme calde e la splenectomia è controindicata. Per quanto riguarda gli immunosoppressori, l’unico farmaco con una ceta efficacia è la ciclofosfamide ma a prezzo di importanti effetti collaterali. Da diversi anni la terapia di prima linea indicata nelle forme da anticorpi freddi è rituximab. Il farmaco è in grado di controllare l’emolisi in circa il 50% dei casi, quando usato singolarmente, ma è ancora più efficace (fino al 70% dei casi circa) se utilizzato in combinazione con altri farmaci (fludarabina, bendamustina). Fra le altre terapie disponibili vanno citate le gammaglobuline per via endovenosa, efficaci soprattutto nei casi pediatrici, e il danazolo.
Da non dimenticare le cosiddette terapie di supporto tra cui la trasfusione, che è indicata nei casi di anemia severa non clinicamente sopportata dal paziente e che deve essere quindi rimandata quanto più possibile. Vi è inoltre la plasmaferesi, utilizzata come misura di emergenza e temporanea per rimuovere complessi immunitari dannosi, autoanticorpi circolanti e complemento attivati. Si ricorda che, in tutti i tipi di AEA, di fondamentale importanza è la terapia con acido folico, indispensabile per fornire al midollo osseo la “materia prima” con cui fabbricare i globuli rossi.
Negli ultimi anni la ricerca scientifica si è focalizzata su nuovi farmaci per le AEA. Tra le terapie in studio si segnalano gli inibitori del complemento (serie di proteine che se attivate contribuiscono all’emolisi) come eculizumab (anticorpo monoclonale contro la proteina C5 del complemento e terapia di elezione della emoglobinuria parossistica notturna), sutimlimab, APL-2 e ANX005 (inibitori di diverse proteine del complemento). Altre terapie innovative sono quelle che agiscono sulle cellule del sistema immunitario come gli inibitori del recettore dei linfociti B, cioè delle cellule che producono l’anticorpo (ibrutinib, idelalisib). Sono inoltre oggetto di sperimentazione clinica i cosiddetti inibitori del proteosoma (bortezomib) o farmaci che inducono la morte programmata delle cellule o apoptosi (venetoclax). Infine, fra le molecole più sperimentali meritano una menzione la citochina IL-2 somministrata a basse dosi, agenti inibitori di proteine chiamate tirosin-chinasi (sirolimus), terapie con un effetto anti-infiammatorio e immuno-modulante (luspatercept e fosfamatinib, SYNT001). L’armamentario terapeutico prossimamente disponibile sarà quindi certamente più ampio di quello fino ad ora in uso, aprendo la possibilità ad una terapia personalizzata delle varie forme di AEA in base ai diversi meccanismi che possono causare la malattia.